< Non calpestare le margherite

di Elisa Coco_Comunicattive

Il presente postmoderno, in cui ogni traccia della linearità del Progresso sembra essersi dissolta insieme alla Storia, ha ingerito e ormai digerito trasformazioni profonde delle strutture del pensiero umano, della percezione dello spazio e del tempo, del senso del mondo e dell’immagine che gli individui elaborano di se stessi.
In un mondo sempre più compatto e al contempo frammentato, in cui l’immediatezza della comunicazione elimina le distanze fisiche e i flussi virtuali smaterializzano i processi sociali, in un mondo in cui le grandi meta-narrazioni sono scomparse, sommerse dall’esplosione delle micronarrazioni, e l’ipertrofia di racconti e immaginari supera qualsiasi possibilità di riconoscimento di senso, cosa accade all’identità di donne e uomini e che fine fanno i corpi?
Attraverso il suo lavoro artistico, Benedetta Alfieri ci suggerisce, con la leggerezza ed essenzialità del suo tratto fotografico, che il corpo si smaterializza, ma senza eclissarsi totalmente: di esso rimane infatti la sagoma disegnata nello spazio da un vestito, la pelle sociale che il corpo abita, lo spazio tra che separa e al contempo collega il corpo e il mondo. L’identità di questo corpo invisibile si frammenta come un frattale in un motivo ripetuto all’infinito, si decompone e ricompone, si moltiplica in una distesa di margherite, evocando l’identità nomade di Rosi Braidotti, il rizoma di Deleuze e Guattari. Come a dire che l’identità, ritagliata su uno sfondo bianco, esiste solo come idea, come figurazione in un astratto fuori dal tempo e al di là dello spazio, nel momento in cui noi la costruiamo come tale e che, nel flusso in divenire della vita, essa si dà come percorso tra tracce disseminate. L’identità di questo corpo incorporeo, che esiste, nonostante la sua assenza, nell’abito che essa abita, si costituisce ogni volta come movimento di aggregazione e disgregazione che l’occhio eserciterà tra l’abito e il modulo o pattern decorativo dell’abito stesso.
L’identità diventa allora un gioco, un puzzle, un movimento, un moltiplicarsi di identità multiple, interrelate e posizionate, tenute insieme dalla trama di un tessuto. E questa trama si fa memoria, memoria del vissuto del corpo che l’abito in-corpora. In questa memoria l’abito ci racconta la storia di una discendenza tra donne, evocando, attraverso le strofe fotografiche di una poesia per immagini, corpi e vite femminili e le loro relazioni materiali, simboliche, affettive che nell’abito convergono. Nel percorso di ricerca ed elaborazione artistica di Benedetta, l’abito si fa così segno di un vissuto femminile che nel suo ordito si traccia come tessuto della relazione con l’altra, l’abito è il racconto che con il suo passaggio o ritrovamento si compie, è, al di là di qualsiasi documentazione, un reperto delle memorie individuali che si fanno memoria condivisa delle donne.

Bologna, febbraio 2006
© Elisa Coco_Comunicattive