< I linguaggi visivi della contemporaneità

di Marisa Galbiati

in Linea Grafica, n. 352, luglio - agosto 2004

Vorrei partire da una suggestione che è dinnanzi agli occhi di tutti: viviamo e siamo immersi in un contesto di visibilità totale.
Dai muri della città al cinema, dalla pubblicità alle mostre d’arte, dalla televisione alla rete, assistiamo oggi ad una moltiplicazione  delle forme, dei linguaggi, dei testi narrativi secondo piani dell’espressione e dei contenuti che variano in continuazione come in un caleidoscopio di infinite combinazioni.
Davanti a una tale esplosione di immagini ci troviamo tuttavia in difficoltà a rintracciarne le regole sintattiche, a individuarne il criterio di lettura, o anche solo a collocarle in una mappa che ci aiuti a comprendere l’orientamento dei linguaggi visivi contemporanei.
Nell’impossibilità di cogliere in un solo sguardo i patrimoni figurali presenti nel nostro immaginario, ciò che possiamo fare è portare l’attenzione su alcuni aspetti utili a tratteggiare le tendenze in atto.

Spazio e tempo si intrecciano
Ai tempi dell’Illuminismo era consuetudine distinguere le arti cosiddette dello spazio (la pittura, la scultura, l’architettura) dalle arti del tempo (la danza, il teatro, la musica), secondo una prospettiva che tendeva a cristallizzare il tempo e lo spazio come due entità separate. Tale distinzione non trova più nutrimento nel pensiero contemporaneo, a partire dalla banale constatazione che osservare, ad esempio, uno spazio architettonico implica un tempo che coincide, innanzitutto, con il tempo impiegato per scorrerne la superficie, al fine di rintracciarne la narrazione. A tutto questo va aggiunto l’avvento dell’immagine tecnomeccanica (fotografia e cinema) prima e dell’universo digitale poi, che hanno definitivamente corroso l’immagine di un tempo lineare e di uno spazio isotropo che la modernità ci aveva consegnato.
A questo dualismo è corrisposto un dualismo teso a separare con una netta demarcazione i generi della produzione iconografica e figurativa: da una parte la fotografia come arte dell’istante, immagine statica e spaziale, dall’altra il cinema o il video come arti del tempo e del movimento.
Basta guardarsi attorno per capire che questa distinzione è crollata.
Sempre più spesso il fotografo usa l’immagine video, il videoartista la pittura, il pittore la fotografia o la grafica, lo scrittore la fotografia, il teatro la multimedialità, la danza gli ipermedia. Il piano dell’espressione e quello dei contenuti di rimescolano fino a generare nuovi testi iconici e nuovi linguaggi visivi, come si evince dalla mostra fotografica Il racconto di un luogo ospitata in Triennale dal 17 all’8 febbraio 2004 (Premio Nazionale di Fotografia Riccardo Pezza, 9^ edizione).
Un buon esempio di contaminazione tra immagine statica e immagine dinamica è già rintracciabile in una realizzazione di Chris Marker, La Jetée (1962), che in seguito darà a Terry Gilliam lo spunto per il film L’esercito delle 12 scimmie (1996). In questo lavoro l’autore presenta il concept di un film attraverso lo storyboard fotografico provocando una deriva percettiva: l’uso sapiente della fotografia ci fa intuire per alcuni minuti che si tratti veramente di un film. Poi, a poco e poco, si svela la struttura di un racconto per immagini fisse e comprendiamo che siamo di fronte ad un testo narrativo fotografico.

Le percezioni diventano instabili
In questo scenario le nostre capacità di lettura e di percezione sono in grado di decodificare immagini o situazioni che solo vent’anni fa erano impensabili, così come all’inizio del secolo scorso un carrello in avanti (il primo della storia del cinema) nel film Cabiria (Patrone, 1914) suscitò nel pubblico una sorta di panico e di nausea, non dissimile da quelli provocati dalle prima proiezioni parigine dei Lumière.
Oggi le dinamiche interne ad un prodotto audiovisivo o a un film sono molto complesse e ci costringono a mettere in campo sistemi di decodifica molto veloci per raccordare spazi e tempi e per coglierne le narrazioni.
La produzione cinematografica, ad esempio, si misura spesso con decostruzioni spaziotemporali, attraverso un racconto discontinuo che impone un forte contributo intellettivo e logico da parte del fruitore. Come ad esempio in Pulp Fiction (Tarantino, 1994), bizzarra storia surreale; o come in MulHolland Drive (Lynch, 2001), dove la protagonista incontra se stessa morta sconvolgendo così le sequenze narrative che fino a quel momento davamo per scontate; o ancora come 21 grammi (Iñárritu, 2003), in cui le vicende dei protagonisti vengono raccontate attraverso una decostruzione temporale dei fatti che solo la nostra competenza acquisita in decenni di visione ci permette di ricombinare.
Molti gli altri film che hanno proposto una deframmentazione del ritmo antropologico, ma anche molte le produzioni artistiche e in particolare la videoarte, come in un’opera di Bill Viola dove il comportamento di una persona viene osservato attraverso un rallenty ipertrofico che l’occhio umano non può percepire.
Tutto ciò è rintracciabile oggi anche nel lavoro dei più giovani e nutre l’immaginario visivo della contemporaneità, immaginario alimentato dai videoclip musicali, dai trailer, dai videogame, da quelle forme della micronarrazione che caratterizzano lo scenario visivo.
Nel breve filmato Stain, realizzato da alcuni studenti della Facoltà del Design del Politecnico di Milano, il gioco sottile di un accadimento lineare viene presentato secondo una logica che ne destruttura il racconto. Solo alla fine il film ci restituisce il senso della narrazione. Così molte produzioni giovanili, realizzate nel segno di una trasgressione dei principi tradizionali del racconto e delle grammatiche visive.

Piani e scatole cinesi
La voracità espressiva, come alcuni studiosi l’hanno definita, ha portato all’esigenza di mostrare contemporaneamente più piani del racconto iconico.
La pubblicità e il cinema (ad esempio: I racconti del cuscino; Le valigie di Tulse Luper; La storia di Moah, di Peter Greenaway; Amnesia, di Gabriele Salvatores), la fotografia stessa (penso ai lavori di Moreno Gentili o di Maurizio Galimberti), le arti visive in generale sembrano avere questa urgenza come a dire: “ti racconto più cose contemporaneamente, oppure ti mostro contemporaneamente più punti di vista della stessa scena affinché tu possa avere uno sguardo più completo, più appagato o più enigmatico”.
É un’euforia espressiva che lavora sempre di più nel vortice di un’estetica della velocità, dell’imprevedibilità, della capacità di sorprendere, che è anche l’assunto dei nuovi videoclip, dei trailer ma soprattutto delle nuove produzioni della rete, dei banner che compaiono in ogni dove, o di siti che informano non tanto su ciò che offrono, ma sulla propria estetica, sulla propria cifra stilistica, come ad esempio il sito del grafico giapponese Yugop.
Le possibilità offerte dai nuovi software (Flash, Director, Final cut, Maya) hanno prodotto nuove estetiche al punto di poter parlare di forme d’arte realizzate con Flash o con l’animazione 3D (non si contano i festival internazionali per la diffusione e la divulgazione di queste forme linguistiche: Imagina, Siggraph, Opera Totale, Flash Film Festival, ecc.). Giovanni Baule ne parla in termini di dizionario, di archivio di segni, di nuovi alfabeti che si traducono in una scrittura di flusso, dinamica, dove immagini statiche e in movimento si fondono senza soluzione di continuità.
Mentre nei primi anni della televisione i palinsesti erano strutturati secondo una logica discontinua, consequenziale e narrativa (vedo un programma e poi spengo la televisione, vedo Carosello e poi vado a nanna…), la cultura televisiva degli ultimi decenni ha prodotto uno scenario di interconnessione continua tra i programmi: vedo un programma all’interno del quale vedo spot pubblicitari, annunci di future trasmissioni, trailer, ecc. Secondo la critica contemporanea, il telespettatore della televisione generalista ha a che fare con due livelli della comunicazione in cui non è mai chiaro cosa sia la figura e cosa sia lo sfondo. Non è così paradossale che la pubblicità venga percepita come la trama principale di un ordito rappresentato da tutto il resto, anche se, in taluni casi, gli spot pubblicitari sono più interessanti di molte trasmissioni delle nostre nazionali reti televisive. Lo zapping ha consentito, inoltre, una forma di multimedialità interattiva dando a tutti la possibilità di costruire palinsesti propri attraverso una visione discontinua, dove si perde il senso di un racconto lineare e di un tempo psico-antropologico, obbligando, tra l’altro, i comunicatori a ricercare nuove forme di comunicazione interstiziali, brevi, accattivanti, più visibile, capaci di uscire dallo sfondo indifferenziato della comunicazione contemporanea.
In questa prospettiva, la comunicazione pubblicitaria, i videoclip, i trailer e le forme brevi della comunicazione tendono ad adottare chiavi comunicative capaci di sedurre e catturare l’attenzione dello spettatore: l’ironia, l’umorismo, il paradosso, il sogno, la sorpresa.
L’idea è quella di dare voce alle emozioni, di mettere un pò di passione anche in una gomma da masticare, di strappare un sorriso o un segno di approvazione mostrando la pubblicità di un caffè, di sorprendere nel tentativo di vendere un nuovo jeans. Melchiorri lo chiama marketing dell’emozione o economia del desiderio. In una recente serata dedicata ai migliori spot del mondo (La notte dei pubblivori, Milano, 30 gennaio 2004) la platea applaudiva calorosamente solo gli spot che presentavano un prodotto con ironia e quelli che promuovevano campagne sociali, o quelli decisamente trasgressivi.
Francesco Morace definisce questa ibridazione e contaminazione con un termine più appropriato e più incisivo: impollinazione, come a indicare una azione produttiva, capace di generare nuove estetiche, nuovi linguaggi, nuovi comportamenti.
I giovani sembrano attingere a patrimoni figurali differenziati, senza rispettare i generi e le grammatiche più tradizionali, riutilizzando in modo diverso ciò che c’è già, risemantizzando e ricontestualizzando.
E poi esistono le pratiche che appartengono all’arcipelago delle sottoculture giovanili come i graffiti, i segni lasciati sui muri, le tag, le risemantizzazioni di oggetti dell’arredo urbano, le segnaletiche stradali che cambiano nome, pratiche che si nutrono della cultura del manifesto murale, dell’affresco, del teatro di strada, segni e segnali di una crisi di appartenenza al sistema che sottolinea una diversa identità, una soggettività altra. Forme che alludono a stili di vita che elevano la trasgressione a norma.

© Marisa Galbiati