< Fotografia come relazione

di Roberta Valtorta

in Il Padiglioncino dei Nuovissimi, Fondazione Un Paese, Luzzara (RE) 2006

Il panorama delle esperienze artistiche contemporanee mette in evidenza un dato: nel loro percorso di ricerca, molti artisti attribuiscono importanza particolare al rapporto che si instaura fra il loro agire e la realtà, fra il loro agire e il pubblico. Vi è infatti una crescente tendenza a mettere in atto operazioni che interagiscono con la realtà, e interventi o performance vengono spesso calati all’interno di contesti sociali che costituiscono la piattaforma dalla quale l’opera scaturisce: l’artista coinvolge altre persone e costruisce narrazioni in dialogo. L’opera dunque non solo interviene nella realtà ma è anche generata da un desiderio di relazione con gli altri e soprattutto diventa mezzo di condivisione di esperienze con il fruitore, che diviene così anche autore.
Si tratta di produzioni che vengono realizzate all’interno di una comunità, insieme a persone che non necessariamente hanno particolari competenze o conoscenze di tipo culturale né sono abituali fruitori dell’arte. L’esito dell’operazione non è necessariamente un oggetto estetico, ma, più facilmente, una azione, un processo, che si crea, cresce, talvolta svanisce.
Talvolta la fotografia si incarica di dare conclusione all’operazione.
Infatti le ricerche contemporanee mettono anche in evidenza che il concetto di fotografia è mutato profondamente: l’attenzione tende infatti a spostarsi dall’immagine in quanto tale come esito finale al quale punta l’artista, all’interesse per l’intero processo attraverso il quale prende forma il pensiero dell’artista e si svolgono le sue scelte.
La differenza è molto grande e indica che il percorso di costruzione dell’opera fotografica assume più valore e più significato dell’esito formale che rende tale l’opera finita. Ci dice, in termini più vasti e dunque anche esistenziali, che la vita nel suo stesso svolgersi conta di più della finalità alla quale essa è rivolta (se mai è possibile sapere e capire a quale finalità una vita è rivolta).
Le ricerche fotografiche dei quattro giovani artisti – Benedetta Alfieri, Maurizio Cavazzoni, Tommaso Perfetti, Emanuela Reggiani – invitati a realizzare nuovi lavori a partire da dipinti selezionati nell’ambito del Premio Arti Naives di Luzzara nel periodo 1967-1977 dà piena conferma di questo nuovo orientamento della fotografia e insieme dell’arte contemporanea.
Una seconda questione va posta come premessa, ed è la completa e positiva separazione di intenti, ormai, fra pittura e fotografia. Se anche solo vent’anni fa fosse stato proposto a un fotografo di produrre una sua ricerca a partire da un dipinto, vi sono molte probabilità che il lavoro fotografico avrebbe mostrato collegamenti anche formali con l’opera pittorica alla quale faceva riferimento: la fotografia aveva già conquistato, vent’anni fa, la sua autonomia, tuttavia la “memoria” della pittura avrebbe creato ancora un qualche forma di relazione, fosse anche laterale e secondaria.
I lavori dei quattro artisti protagonisti di questo progetto, come vuole la nostra contemporaneità, sono invece formalmente del tutto staccati dai dipinti dai quali hanno tratto “ispirazione”, mantenendo con essi un rapporto di natura lontanamente concettuale. I dipinti, insomma, hanno fornito un aggancio iniziale, ma i processi di lavoro che ne sono derivati sono sorprendentemente liberi.

Benedetta Alfieri ha scelto come riferimento il dipinto di Laura Moruzzi Festa di paese. L’assetto del dipinto suggerisce l’idea di teatro come luogo del racconto per eccellenza, e questo provoca la realizzazione di una fotografia del teatro di Luzzara, ripreso frontalmente e presentato come luogo assoluto, ideale. Benedetta Alfieri dilata poi alcune sue riflessioni convogliandole in un percorso di pensiero che va lontano per poi tornare al teatro, e letteralmente al teatro di Luzzara. Sa infatti che l’architetto che avrebbe dovuto occuparsi della ricostruzione del museo e del teatro di Luzzara era molto vicino al lavoro di Le Corbusier e che dopo un viaggio in India pubblicò un diario di viaggio e studiò a fondo la progettazione urbanistica che Le Corbusier aveva realizzato a Chandighar, capitale del Punjab. Sa che la folta comunità indiana residente a Luzzara arriva dal Punjab. Benedetta Alfieri conosce l’India e l’ha visitata. A partire da questa serie di “indizi” e di coincidenze invita alcune donne indiane di Luzzara nello spazio del teatro e chiede loro di raccontare la loro storia, i loro problemi, la loro vita quotidiana – davanti alla sua videocamera.
Il teatro di Luzzara diventa uno spazio di significato totale che accoglie il racconto – che significa voci e vite provenienti da lontano e approdate in un paese vicino al Po –, e il racconto è al tempo stesso estremamente vero e sospeso nel tempo e nello spazio, straniato.
Il lavoro di Benedetta Alfieri ha qualcosa di magico e antico, pone in collegamento realtà diverse, relazioni, pensieri, rende protagoniste e “attrici” persone che con molta probabilità vivono nel silenzio, “resuscita” la centralità del teatro per ogni comunità che sia in cerca di se stessa.

Maurizio Cavazzoni costruisce il suo lavoro fotografico a partire dal dipinto di Aldo Ordavo Elefante viola. L’elefante viola rappresenta immediatamente per lui un’immagine di fiaba e un riferimento al mondo dell’infanzia. Inizia dunque a inventare storie sull’elefante viola insieme a sua figlia, dando sfondo personale e quotidiano all’elaborazione del lavoro. Invita poi genitori e bimbi di Luzzara a inventare storie che abbiano come protagonista un elefante viola e realizza una serie di ritratti – seguendo la classica modalità della fotografia di studio – ai quali accosta i testi che raccontano le storie da loro stessi inventate. Il lavoro prende forma e significato grazie alla partecipazione delle persone coinvolte nel progetto: la fotografia rappresenta un atto finale che chiude il percorso e non costituisce affatto l’intero del lavoro, e anche l’idea di ritratto si dilata.
Con l’unire fotografia e testo Cavazzoni intende richiamare il rapporto fotografia-scrittura che è nella storia culturale di Luzzara e che ha come grande esempio storico la nota collaborazione fra Cesare Zavattini e Paul Strand. Anche nel testo di Zavattini pubblicato in Un paese, vi era, spesso, la voce dei Luzzaresi, che qui si fa racconto vero e proprio, e consapevolezza del partecipare, dell’essere non solo spettatori dell’opera, ma anche creatori.

Come per Benedetta Alfieri e Maurizio Cavazzoni, anche per Tommaso Perfetti l’opera si crea attraverso l’esistenza e l’attivo contributo di molti soggetti che ne diventano in un certo senso co-autori. Il dipinto di riferimento è questa volta Figura femminile, un ritratto di Pietro Ghizzardi di sapore espressionista. Il concetto di segno orienta subito il lavoro nella direzione dell’impronta intesa da Perfetti nel senso più proprio dal punto di vista semantico: indice, segno creato fisicamente. Invita dunque numerosi abitanti di Luzzara, sia italiani che non italiani, a lasciarsi dipingere il corpo con tempera acrilica e a lasciare traccia del loro corpo su tele bianche – come nell’esperienza di Yves Kline. Fra l’artista e i partecipanti nasce un dialogo, anche un rapporto di conoscenza amichevole, che gli consente infine di lavare i loro corpi dalla tempera una volta terminata l’azione. Compiuto questo rituale di conoscenza, le impronte vengono fotografate, digitalizzate, scomposte e ricomposte a formare nuovi corpi costituiti da parti mescolate, “meticci”, come meticcio è, secondo l’autore, il paese di Luzzara – e ogni altro paese – contemporaneo: indefinibile nella sua identità sociale e culturale. Ma al di là di ogni mescolamento e ricomposizione, la forma umana resta sempre tale. Nuovamente, la fotografia è solo l’atto finale che pone conclusione a un progetto che si fonda sulla relazione e lo scambio fra persone.

Il lavoro di Emanuela Reggiani contiene una vera e propria esperienza nel territorio di Luzzara e del Po. Nella struttura visiva del dipinto di riferimento, Il matrimonio delle mie figlie di Rina Nasi, l’autrice coglie un segno dominante che richiama l’andamento di un fiume. Decide dunque di seguire il Po da Voghera fino a Luzzara in bicicletta – in una sorta di omaggio a Zavattini e alla lentezza, modalità molto importante per osservare il paesaggio. Durante il viaggio si ferma di tanto in tanto a fotografare il fiume dall’argine, utilizzando sempre lo stesso punto di vista: raccoglie così una serie di frammenti che poi ricompone uno di seguito all’altro, a formare una continuità del fiume solo apparente, in verità una falsa continuità. Con questa scelta afferma la profonda natura di frammento della fotografia e l’impossibilità di raccontare l’insieme della grande scena, pur suggerendo un’idea di racconto che va parallelo al procedere dell’acqua del fiume. Sempre all’acqua del fiume a Luzzara dedica poi un video di tono minimalista: la camera è fissa, solo l’acqua scorre, offrendo all’osservatore lo stesso fiume e un fiume sempre diverso, insieme a una riflessione sul tempo.

Milano, ottobre 2006
© Roberta Valtorta